LA VOLANTE ROSSA            


LE SANGUINOSE IMPRESE DELLA VOLANTE ROSSA
1948 Quello che la scuola di Berlinguer eviterà di ricordare
Paolo Pisanò
 
 
    Il ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, si appresta ad assegnare agli Istituti storici della Resistenza la tenuta dei corsi di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole medie (corsi indispensabili per ottenere gli avanzamenti di carriera). Come dire: la storia italiana contemporanea in appalto istituzionale alla fazione.
    E il pericolo di cadere dalla padella della "non storia" insegnata nell'ultimo mezzo secolo di reticenze e di menzogne alla brace della "storia di regime" sfacciatamente affidata agli Istituti suddetti, non riguarda solo il periodo catastrofico della guerra civile, con le sue foibe, le sue stragi compiute per innescare e alimentare la spirale del sangue, le sue doppiezze, le sue efferatezze, le sue fosse comuni , i suoi manicheismi e i suoi misteri mai spiegati agli italiani, ma anche il "dopo", ossia la seconda metà degli Anni Quaranta quando il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti ma anche di Pietro Secchia (l'uomo che voleva la lotta armata) perseguiva la politica del doppio binario, democratica e legalitaria nella facciata ma eversiva e rivoluzionaria nell'anima (e nei fatti). Pochi sanno infatti che vent'anni prima dell'apparizione sulla scena politica italiana della "strategia della tensione" e deIle "stragi di Stato", anche il Pci si era abbondantemente servito della tecnica della provocazione usando un apparato terroristico-militare che era la filiazione diretta di quello gappista "garibaldino" impiegato nella guerra civile fino al 25 aprile 1945.
    Cade proprio quest'anno, in concomitanza con il cinquantesimo anniversario della sconfitta elettorale del Fronte Popolare (18 aprile 1948) e del successivo attentato a Togliatti (14 luglio 1948) il cinquantenario della caduta in disgrazia di una delle formazioni terroristiche comuniste più tristemente note di quel periodo iniziale di prima Repubblica: la "Volante Rossa" di Milano. Acquartierata nei locali della ex Casa del Fascio di Lambrate in via Conte Rosso 12, trasformata ovviamente in Casa del Popolo dopo il 25 aprile, la Volante Rossa Martiri Partigiani era formata per lo più da giovani di estrazione proletaria decisi a chiudere i conti della rivoluzione comunista aperti con la guerra civile e tali rimasti dopo il 25 aprile, in attesa che il Partito ordinasse la "seconda ondata" nella quale ciascuno di costoro credeva ciecamente. Comandata dal "tenente Alvaro" (al secolo Giulio Paggio, di professione guardia giurata all'Innocenti di Lambrate) la Volante Rossa mascherò così per quattro anni (1945-1949), dietro il paravento di un innocuo circolo ricreativo-culturale che si sosteneva ufficialmente eseguendo trasporti conto terzi (di giorno), una serie spaventosa di violenze, che insanguinarono Milano e dintorni, spezzando le vite di giovani e vecchi, uomini e donne colpevoli solo di essere stati segnalati come fascisti irriducibili (ex militari, giornalisti, possidenti) sopravvissuti al massacro della primavera 1945. Vittime della Volante Rossa, o di delitti di folla consumati sotto la sua regia, furono tra gli altri l'ex generale della Milizia Ferruccio Gatti; il giornalista Franco De Agazio direttore del Meridiano d'Italia assassinato la sera del 14 marzo 1947 sulla porta di casa in via Strambio, e il possidente Giorgio Magenes, aggredito nella sua fattoria di Mediglia (Milano) e linciato dopo che si era difeso uccidendo un assalitore.
    Anche se la verità ufficiale vuole la Volante Rossa come una scheggia impazzita della guerra civile e gli onorevoli D'Alema e Berlinguer inorridirebbero alla sola idea di riconoscerle uno spazio nell'"album di famiglia", i suoi legami con la federazione milanese del PCI furono tali da permettere di scoprire, più avanti, che il Partito comunista non si era limitato a ispirarla ma se ne era addirittura servito per organizzare dei falsi attentati nell'ambito della sua strategia della tensione ante litteram.
 
I FALSI "BRIGANTI NERI"
    La provocazione comunista prevedeva, di massima, due tipi di applicazione: l'attentato organizzato da elementi del PCI e quello organizzato dal PCI ma eseguito da elementi etichettabili come appartenenti a organizzazioni avversarie. Gli anni che seguirono la fine della guerra furono pieni di episodi del genere. Per quanto riguarda gli attentati organizzati dal PCI a Milano vale la pena di ricordare che il Partito comunista, attraverso i suoi agenti travasati direttamente dalle brigate Garibaldi negli organici della Questura, riuscì perfino, verso la fine del 1945, a creare dal nulla un fantomatico pericolo di "restaurazione fascista". Con l'appoggio del tenente Corti, un ex partigiano diventato ufficiale di Pubblica Sicurezza, i dirigenti comunisti di allora (Giuseppe Alberganti, Pietro Vergani, Piero Montagnani, Giancarlo Pajetta), fecero credere che i fascisti stavano preparando sabotaggi e tentativi insurrezionali. Per dimostrare che tutto ciò costituiva un pericolo per la rinata democrazia, l'apparato comunista organizzò delle azioni terroristiche che poi vennero imputate ai "briganti neri risorgenti", tanto per usare il linguaggio dell'epoca. Ma i capi comunisti si rivelarono ancora più abili nell'orchestrare una serie di azioni la cui esecuzione doveva essere affidata a elementi facilmente identificabili come appartenenti alle file neofasciste.
    La tecnica della provocazione, in questi casi, consisteva, prima di tutto, nell'infiltrare negli ambienti avversari gli agenti comunisti. Costoro, manifestando feroci sentimenti antimarxisti, riuscivano a conquistare la fiducia degli elementi più sbandati, inquieti ed estremisti e potevano così individuare i personaggi più facilmente agganciabili, sul piano psichico e politico, all'azione terroristica. A questo punto si mostravano loro armi, esplosivi e li si convinceva che l'organizzazione disponeva di mezzi potenti e tali da garantire l'impunità. Con questo sistema i comunisti giunsero a costituire squadre di attentatori pronti a agire nell'assoluta convinzione di fare parte di formazioni "anticomuniste" agli ordini di "centri occulti", politicamente influenti, italiani o esteri.
    Una volta eseguiti gli ordini, però, questi giovani si videro denunciati alla polizia: e solo allora compresero di essere stati le pedine del gioco comunista. Questa durissima esperienza toccò nell'immediato dopoguerra a più di un giovane dell'area neofascista: ricordiamo per tutti Ferruccio Mortari, Domenico Nodari e Andrea Esposito che, a Milano tra il 1946 e il 1947, vennero agganciati dagli agenti provocatori marxisti, usati per atti di provocazione e poi consegnati nelle mani della giustizia.
 
MILANO SCONVOLTA
    Ed ecco la storia di nove "attentati neofascisti" organizzati dal PCI tra l'estate del 1945 e la fine del 1947.
    Primo attentato. Il 4 settembre 1945 un congegno incendiario a orologeria esplose nei locali del palazzo dell'Arengario, in piazza Diaz, dove era stata allestita la Mostra della Ricostruzione organizzata dal Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Italia. L'esplosione venne subito attribuita ai neofascisti e la stampa socialcomunista ne prese lo spunto per sostenere che i seguaci di Mussolini stavano organizzandosi e che, di conseguenza, la magistratura doveva colpire duramente quei fascisti in attesa di essere giudicati dalle Corti d'Assise straordinarie. Vi furono manifestazioni di piazza e comizi. In realtà l'attentato venne organizzato e compiuto da partigiani comunisti già appartenenti alla disciolta 110° brigata Garibaldi. Motivo dell'attentato: la Corte d'Assise straordinaria di Milano aveva condannato a soli 20 anni di carcere Carlo Emanuele Basile, già prefetto di Genova della Rsi.
    Secondo attentato. Alle ore 18 del 17 maggio 1946 una bomba esplose negli uffici comunali di Via Larga. L'ordigno era stato sistemato nella toilette accanto alle stanze che ospitavano gli uffici elettorali in vista dell'ormai prossimo referendum del 2 giugno. La deflagrazione provocò il ferimento del telefonista Mauro Tarantini. Subito dopo il Pci scatenò una serie di violente dimostrazioni contro il "fascismo risorgente" che "voleva ostacolare la libera espressione della volontà popolare". L'attentato venne invece eseguito dai componenti di una squadra di sicurezza alle dirette dipendenze del compagno Fabio, al secolo Pietro Vergani, poi deputato del Pci.
    La squadra era agli ordini di un certo F. P., che in seguito, però, si staccò dal partito. Motivo dell'attentato: le elezioni amministrative tenute nei primi mesi del 1946 avevano rivelato che il Pci, considerato il partito più forte durante le giornate dell'aprile 1945, non disponeva di un'eccezionale forza elettorale. I capi del Pci avevano quindi ritenuto opportuno galvanizzare l'opinione pubblica contro un inesistente pericolo fascista allo scopo di figurare poi come i "difensori della democrazia".
    Terzo attentato. Anche questo venne determinato dagli stessi motivi e fu eseguito dai medesimi elementi. Obiettivo prescelto, in questa occasione, fu la sede del Pci di Sesto San Giovanni, ex villa Zorn. L'azione venne compiuta la notte del 26 maggio con il lancio di una bomba a mano tipo Breda. Non ci furono vittime.
    Quarto attentato. La notte tra l'1 e il 2 giugno, vale a dire poche ore prima dell'inizio delle votazioni per il referendum, due bombe a mano di tipo tedesco vennero lanciate contro la tipografia Same, in piazza Cavour, dove di stampava l'Unità. La duplice esplosione provocò il ferimento di cinque operai. Motivo e autori: come nei due casi precedenti.
    1948 Quello che la scuola di Berlinguer eviterà di ricordare La Volante Rossa tradita dai compagni Gli ultimi attentati dei terroristi comunisti a Milano e la loro misera fine mentre i capi vengono spediti oltre cortina Paolo Pisanò
    La scorsa settimana abbiamo pubblicato la prima parte della rievocazione dei crimini compiuti dalla Volante Rossa, la famigerata formazione terroristica usata dai comunisti nell'immediato dopoguerra. La Volante aveva sede a Milano nella ex Casa del fascio di Lambrate trasformata, dopo la Liberazione, in Casa del popolo. Dietro l'apparenza di un innocuo circolo ricreativo e culturale, celava un'attività clandestina tesa a colpire con crescente violenza chiunque si opponesse ai disegni del Partito di Togliatti. Al comando del partigiano "Tenente Alvaro" al secolo Giulio Paggio, guardia giurata all'Innocenti durante il giorno e capobanda di notte. Dopo aver ricostruito i primi quattro attentati, organizzati tra la primavera '45 e il giugno '46, proseguiamo il racconto delle altre imprese sino alla fine della sanguinosa parabola.
    Quinto attentato. La sera del 23 agosto 1946, alle ore 22,20, una bomba a orologeria scoppiò proprio all'interno della Casa del Popolo di Lambrate, in via Conte Rosso, alla periferia di Milano, dove aveva la sua base operativa la Volante Rossa. In quello stesso istante un gruppo di uomini armati di mitra attaccò l'edificio. I partigiani che presidiavano la Casa del Popolo risposero prontamente alle raffiche. Lo scontro a fuoco fu breve e violento. Uno degli attaccanti cadde ucciso. Un secondo venne catturato dagli uomini di "Alvaro". La polizia, subito chiamata dai comunisti, scoprì che sia il caduto sia il prigioniero erano noti per i loro sentimenti fascisti. Il morto si chiamava Euro Zazzi, il prigioniero Alfredo Portinari. Ambedue dimoravano a Gorla, presso Milano.
 
SCATTA LA TRAPPOLA
    L'episodio venne sfruttato dal Pci con uno spiegamento di mezzi pubblicitari mai visto prima. Si urlò dovunque che i fascisti stavano rialzando al testa al punto da osare attacchi aperti contro le sedi comuniste. Si pretese che le autorità intervenissero decisamente contro la "belva risorgente". Ma nessuno, allora, riuscì a scoprire l'incredibile verità che si nascondeva dietro quell'attacco: l'attentato alla Casa del Popolo di Lambrate era stato infatti organizzato, per ordine del Pci, dalla Volante Rossa che aveva sede appunto in quell'edificio. Ideatore e stratega di tutta l'operazione fu Giulio Paggio, detto Tenente Alvaro, capo dell'organizzazione terroristica, che venne poi condannato all'ergastolo in contumacia per la lunga serie di delitti compiuti da lui e dai suoi uomini in quel periodo.
    Il Tenente Alvaro incaricò dapprima un suo partigiano, che aveva militato durante la Rsi nelle Brigate Nere, di agganciare qualche estremista fascista proponendogli di partecipare a un'azione di tipo squadrista. Il Zazzi e il Portinari caddero nel tranello. Senza afferrare la realtà della situazione, accettarono di formare una squadra di terroristi con altri tre camerati: uno di questi era l'ex brigatista nero che li aveva arruolati. Gli altri due, che si spacciavano per ex marinai della X Mas erano, in realtà, due comunisti della Volante Rossa.
    La sera del 23 agosto i cinque attentatori si avvicinarono alla Casa del Popolo protetti dalle tenebre. Ma, nell'edificio, il Tenente Alvaro era già in attesa con i suoi uomini. Il segnale dell'attacco venne dato dall'esplosione di una bomba che Alvaro, d'accordo con i suoi amici che dovevano fingersi attaccanti, aveva sistemato in una stanza al pianterreno. Dopo lo scoppio, infatti, incominciò la sparatoria. Euro Zazzi cadde ucciso quasi immediatamente, colpito di fianco da una raffica esplosa da uno dei due falsi marinai della Decima. Il Portinari, a sua volta, non fece nemmeno in tempo a capire che cosa stesse accadendo, che si trovò scaraventato nell'interno della Casa del Popolo tra le braccia dei difensori.
    L'esito di questa perfetta messa in scena fu pari all'aspettativa: la polizia, infatti, si trovò di fronte al cadavere di un fascista e a un prigioniero che ammise subito di essere fascista pure lui. Che altro occorreva per scatenare una campagna di stampa e sostenere che i fascisti stavano rialzando la testa? Un morto e un prigioniero erano più che sufficienti per suffragare drammaticamente la tesi comunista. Il Portinari, operaio alla Pirelli, venne condannato a una dura pena detentiva.
    Ed ecco il motivo di questa azione così bene organizzata. In quei giorni il servizio di sicurezza del Pci aveva saputo che i fascisti si stavano effettivamente riorganizzando e cercavano di dare vita a un nuovo partito che si sarebbe chiamato Movimento sociale italiano. La notizia aveva creato un certo panico nelle file comuniste. Si diceva infatti che il nuovo partito si sarebbe valso di ingenti fondi occultati in tempo utile da Mussolini e si sarebbe appoggiato a una potente organizzazione paramilitare creata poco prima dell'aprile 1945 dal Partito fascista repubblicano. Fu così che i capi del Pci diedero incarico alla Volante Rossa di creare le premesse necessarie a una violenta campagna antifascista e ottenere così, dal governo, il "non riconoscimento" legale della nuova formazione politica.
    Sesto attentato. Il 9 ottobre 1946 una violenta esplosione devastò i sotterranei della Casa del Popolo di Porta Genova uccidendo il piccolo Franco Fiammeni di 5 anni, figlio del custode dello stabile. Immediatamente l'apparato comunista sì scatenò in una martellante campagna antifascista accusando dell'infame delitto i "rigurgiti di fogna delle Brigate Nere". Tutta Milano venne mobilitata. Ai funerali del piccolo Franco, che si snodarono per le vie principali della città, partecipò tutta la cittadinanza. Anche la stampa borghese si unì al coro delle esecrazioni.
 
IL BAMBINO DILANIATO
    Le indagini, però, non approdarono a nulla. Dai "neofascisti" arrestati non si seppe niente di positivo. Un giorno dopo l'altro il clamore si placò e del piccolo Franco Fiammeni nessuno parlò più. Ma anche la verità su questo tragico episodio mette a nudo una speculazione politica. Franco Fiammeni, infatti, non fu vittima di un attentato anticomunista, ma della criminale incoscienza di alcuni ex partigiani della 117a Brigata Garibaldi.
    Ecco l'esatta ricostruzione dei fatti. Nei mesi che seguirono la fine della guerra, i partigiani comunisti trasformarono quasi tutte le sedi del Pci in depositi di armi e munizioni. Anche il sotterraneo della Casa del Popolo di Porta Genova divenne un'armeria. Ogni tanto qualche partigiano scendeva nell'ampio scantinato e lubrificava mitra e moschetti. Un giorno, però, gli addetti alla manutenzione, uscendo dall'armeria, si dimenticarono di chiudere la porta della cantina.
    Fu così che il piccolo Franco, il quale poteva muoversi a piacimento nell'edificio, finì col trovarsi davanti a quella porta che non aveva mai potuto varcare. La curiosità lo vinse. Penetrò nello scantinato e si trovò in mezzo ad armi di ogni genere. Si mise a giocare con una mina anticarro Breda, ma il gioco finì tragicamente. La mina esplose e Franco restò dilaniato. La tragedia poté essere ricostruita esattamente perché l'esplosione della mina restò isolata: le cassette di munizioni e le bombe a mano accatastate nel sotterraneo, infatti, non scoppiarono a loro volta.
    I danni, comunque, furono ingenti e la deflagrazione venne udita in tutto il popoloso quartiere di Porta Genova. Il tragico episodio venne immediatamente a conoscenza dei capi del Pci. Che fare? Ammettere la verità significava confessare che lo scantinato della Casa del Popolo era, in realtà, una specie di polveriera. Si rendeva quindi necessario imbastire al più presto una storia che potesse risultare attendibile e, nello stesso tempo, fare ricadere la responsabilità della morte del piccolo Franco sulle spalle di qualcuno. Allora, su due piedi, venne inventato il "nefando e criminale attentato neofascista".
    Settimo attentato. La notte del 25 settembre 1947, alle ore 1 e 15, la zona dei bastioni di Porta Volta venne squarciata dall'esplosione di una carica di tritolo posta presso il basamento di uno dei pilastri d'ingresso della Federazione comunista in piazza 25 Aprile. I danni furono limitati ma, come al solito, il Pci ne approfittò per un'ennesima campagna antifascista. Le indagini vennero rivolte, naturalmente, in senso unico, vale a dire che vennero setacciati gli ambienti giovanili nazionali. I risultati, questa volta, parvero positivi. La polizia fermò alcuni giovani i quali ammisero di avere fatto parte di gruppetti che si erano prefissi di compiere attività terroristica. Tra questi, però, non emersero i nomi dei veri responsabili. Mentre le indagini continuavano, a distanza di 39 giorni dall'esplosione in piazza 25 Aprile, se ne verificò un'altra nella sede della Casa del Popolo di via Andrea Del Sarto. Da quel momento, come ora racconteremo, gli avvenimenti presero una piega del tutto particolare.
    Ottavo attentato. Alle ore 1 del 4 novembre 1947, una carica di tritolo, collocata nel vano di una finestra al pianterreno della Casa del Popolo in via Andrea Del Sarto, esplose con grande fragore provocando però danni molto limitati. Pochi giorni più tardi la polizia, in seguito a una segnalazione anonima, riuscì ad arrestare tre giovani, due uomini e una donna appartenenti a formazioni nazionali: gli indiziati ammisero di essere stati gli autori non solo dell'attentato in via Andrea Del Sarto, ma anche di quello contro la Federazione comunista. Nel processo che ne seguì, i giovani furono condannati a dure pene detentive. Attorno a tutta la vicenda, però, continuò sempre a gravare una pesante coltre di mistero. Tra l'altro, due mesi dopo l'attentato di via Andrea Del Sarto, il padre di Ferruccio Mortari, uno degli arrestati, venne assassinato misteriosamente.
    Solo in seguito fu possibile dare l'esatta versione dei tragici episodi e rivelare la manovra condotta dai comunisti allo scopo di spingere dei giovani neofascisti a compiere imprese che facevano comodo al Pci. Le due azioni terroristiche, infatti, vennero decise dai dirigenti comunisti. Motivo: nel maggio del 1947 il Pci era stato eliminato dal governo e le masse comuniste, secondo Togliatti, non avevano reagito con sufficiente fermezza. Tre mesi più tardi, infatti, nel corso di una sua visita a Milano, il segretario del Pci aveva lanciato pesanti accuse contro i dirigenti comunisti della capitale lombarda accusandoli di cecità e di incapacità politica. In realtà il Pci, in quel periodo, stava attraversando un momento di stanca: le masse non reagivano o reagivano con molta pigrizia.
 
DOCUMENTI PERICOLOSI
    L'accusa di Togliatti, comunque, spronò i capi militari del Pci a prendere delle iniziative e, secondo una tecnica ormai usuale, venne stabilito che per svegliare l'opinione pubblica era necessario vitalizzare le masse comuniste suscitando la loro indignazione. Un piano del genere prevedeva l'intervento di "tecnici" molto specializzati. Ancora una volta entrò così in scena la Volante Rossa già brillantemente collaudata con l'attacco alla Casa del Popolo di Lambrate. Il suo capo, il Tenente Alvaro, si mise al lavoro. Riuscì a infiltrare uno dei suoi, certo M. G., ex brigatista nero reduce per di più dal campo di concentramento di Coltano, nell'area neofascista. M. G. agganciò alcuni tra gli elementi più estremisti e li convinse ad agire. Cosa che avvenne, appunto, con un primo attacco contro la Federazione comunista la notte del 25 settembre.
    Subito dopo, però, la vicenda cominciò a complicarsi. I piani comunisti, infatti, prevedevano più di una azione terroristica. Accadde invece che il G., al quale spettava il compito di coordinare l'attività degli attentatori reclutati fra i neofascisti, venisse arrestato dalla polizia nel corso di una retata assieme a una decina di altri giovani sui quali pesavano dei sospetti. I veri autori dell'attentato, però, restarono a piede libero e, fedeli agli impegni presi fra di loro sotto l'incitamento del G., attaccarono anche la Casa del Popolo di Via Andrea del Sarto. 
    A questo punto, però, la Federazione del Pci intervenne nel timore che i neofascisti, non più controllati dal "compagno pilota", cominciassero a fare sul serio: andò a finire che i componenti della squadra furono subito arrestati in seguito a una misteriosa delazione. Nel processo che ne seguì questa verità non venne a galla. I giovani attentatori vollero assumersi tutte le loro responsabilità e, forse, non seppero mai di essere stati delle pedine manovrate dall'apparato comunista di sicurezza. Un solo particolare di questa storia non è mai stato chiarito: i motivi che spinsero gli uomini della Volante Rossa ad assassinare il padre di Ferruccio Mortari, uno dei giovani attentatori, due mesi dopo l'arresto del figlio.
    Nono attentato. Il 12 novembre 1947, alle ore 12,15, un'esplosione scosse nuovamente il palazzo che ospitava, in piazza 25 Aprile, la sede della Federazione comunista. La polizia, subito chiamata, appurò che una bomba, collocata sotto una panca di legno situata in un corridoio del primo piano, accanto all'Ufficio stralcio delle Brigate Garibaldi, affidato allora all'onorevole Cavallotti, aveva provocato un incendio. Le fiamme avevano distrutto tutti gli incartamenti riguardanti il movimento amministrativo delle brigate partigiane comuniste durante e dopo la guerra civile. 
    L'attentato, naturalmente, provocò indignate, grandi manifestazioni antifasciste. Masse di dimostranti, capeggiate dalla Volante Rossa, si diressero dalla sede del Pci verso il centro cittadino assalendo e devastando la redazione del Mattino d'Italia, quotidiano liberale, e le sedi de l'Uomo qualunque, del Movimento sociale italiano e del Mrp (Movimento di resistenza partigiana), un'organizzazione di ex partigiani dissidenti dal Pci.
    Ma la verità, ancora una volta, non aveva niente a che fare con i motivi dell'indignazione popolare. Il "crimine fascista" era stato organizzato dal Pci per un motivo ben preciso. In quei giorni era in pieno svolgimento l'inchiesta sull'oro di Dongo affidata a un magistrato militare, il generale Zingales, del quale erano ben note l'intelligenza e l'intransigenza. Il generale Zingales, a un certo momento, aveva ordinato il sequestro di tutti gli incartamenti relativi all'amministrazione delle Brigate Garibaldi. Lo scopo era chiaro: da un'analisi delle somme entrate e uscite (specie di quelle uscite) sarebbe stato possibile accertare l'entità dei valori entrati in possesso dei capi comunisti. Il Pci, ovviamente, non aveva alcun interesse a consegnare gli incartamenti. Fu così che il solito tenente Alvaro, capo della Volante Rossa, venne incaricato di sistemare la faccenda. Fu un gioco da ragazzi. D'accordo con i dirigenti del Pci, Alvaro attese che gli uffici della Federazione chiudessero per l'intervallo di mezzogiorno, depose la bomba, la fece scoppiare, versò un po' di benzina sugli scaffali pieni della carta straccia con la quale erano stati sostituiti gli incartamenti compromettenti messi prima al sicuro, e se ne andò indisturbato. Se la polizia si fosse presa la briga di indagare un poco su tutta la faccenda non avrebbe tardato a capire che solo un comunista poteva avere eseguito l'attentato: era infatti impossibile che un estraneo all'ambiente dei dirigenti comunisti potesse raggiungere, in pieno giorno, i piani superiori della Federazione del Pci di Milano, presidiati in permanenza da guardie armate. Ma nel 1947 la polizia era composta, per lo più, di ex partigiani che fingevano di non vedere e non sentire.
 
LA FINE DELL'ILLUSIONE
    Dieci anni dopo, quando si svolse a Padova il processo per i fatti di Dongo, l'onorevole Cavallotti, chiamato a deporre circa la sorte subita dai famosi incartamenti, si limitò a presentare un verbale della polizia dal quale risultava che i documenti erano andati distrutti in seguito alla criminale azione neofascista. La sua deposizione venne accolta da una fragorosa risata generale, ma intanto i documenti non vennero mai prodotti.
    Non finì con una risata generale, invece, la parabola sanguinosa della Volante Rossa. Dopo la sconfitta elettorale delle sinistre alle elezioni del 18 aprile 1948 il Tenente Alvaro e i suoi uomini cominciarono a risultare scomodi. Soprattutto dopo l'attentato a Togliatti quando, nel pomeriggio del 14 luglio 1948, nel pesantissimo clima insurrezionale che era calato su tutta l'Italia del Centro-Nord, la Federazione milanese del Pci riuscì a fermare appena in tempo il tenente Alvaro e i suoi uomini subito usciti dalla sede di via Conte Rosso muniti anche di armi anticarro e decisi allo scontro rivoluzionario. Da quel momento, a poco a poco, allo stesso modo in cui erano stati illusi e usati spietatamente, altrettanto spietatamente Alvaro e i suoi vennero isolati e scaricati. Il raffreddamento del partito e quindi del brodo di coltura nel quale l'organizzazione nuotava, ebbe sulla Volante Rossa lo stesso effetto che alcuni decenni più tardi avrebbe avuto la presa di coscienza del progressivo "distacco delle masse" sui terroristi rossi degli anni di piombo: la spinse ad appoggiarsi alla criminalità comune, stabilendo con questa canali interattivi sempre meno politici e sempre più criminali.
    Pochi mesi dopo, al culmine di questo processo degenerativo, il Pci chiuse il capitolo consegnando nelle mani della giustizia "borghese" i pesci piccoli. Fra questi, Eligio Trincheri, killer maldestro e autore degli ultimi omicidi, che rimase in galera fino al 1971 allorché fu graziato dal presidente Giuseppe Saragat. Gli altri vennero graziati da Sandro Pertini nel 1978. Il Pci riservò un trattamento di favore solo ai tre elementi di punta dell'organizzazione: Giulio Paggio, Paolo Finardi e Natale Buratto che poterono fuggire in Cecoslovacchia, al riparo della Cortina di Ferro, sia pure inseguiti da condanne all'ergastolo.
    E là rimasero a meditare sul fatto che la rivoluzione tanto sognata era finita prima di cominciare ma che di ciò erano stati avvertiti solo quando non erano serviti più.
 
 
L'UOMO QUALUNQUE Numeri 6 e 7 del 19 e 26 Febbraio 1998. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

DOMUS